INTRODUZIONE
«È come nelle grandi storie, padron Frodo, quelle che contano davvero, erano piene di oscurità e pericolo, e a volte non volevi sapere il finale, perché come poteva esserci un finale allegro, come poteva il mondo tornare com’era dopo che erano successe tante cose brutte; ma alla fine è solo una cosa passeggera, quest’ombra, anche l’oscurità deve passare, arriverà un nuovo giorno, e quando il sole splenderà, sarà ancora più luminoso. Quelle erano le storie che ti restavano dentro, anche se eri troppo piccolo per capire il perché, ma credo, padron Frodo, di capire ora, adesso so: le persone di quelle storie avevano molte occasioni di tornare indietro e non l’hanno fatto; andavano avanti, perché loro erano aggrappati a qualcosa.» [Samvise Gamgee, Il Signore degli Anelli – Le due torri]
Vi starete probabilmente domandando il motivo di un titolo così importante ed il perché di un richiamo ad un capolavoro cinematografico per un articolo pubblicato su un remoto sito di motori, scritto da un sedicente giornalista, come il sottoscritto. La risposta è semplice: l’incredibile storia vera che sto per raccontarvi è stata scritta da autentici eroi.
ANATOMIA DI UN EROE
Ma com’è possibile che i semplici membri di una piccola scuderia possano essere definiti eroi? Per rispondere a tale domanda bisogna prima capire quali siano gli elementi che rendono un normale soggetto un eroe.
La prima peculiarità ritengo sia il carattere resiliente, ovvero quella capacità di affrontare errori, problemi tecnici e sfide mentali, riuscendo al tempo stesso a trasformare ogni difficoltà in un’opportunità di crescita.
Il secondo tratto fondamentale di un eroe è la determinazione, il cuore di ogni impresa eroica, poiché permette di superare gli ostacoli, affrontare le difficoltà e raggiungere il traguardo anche quando questo sembra essere molto lontano.
L’ultima caratteristica necessaria è la passione, in virtù del fatto che senza di essa le persone non investirebbero tempo, energie e risorse nello svolgimento dell’attività che più amano. La passione è sostanzialmente ciò che rende una persona autentica e degna di ammirazione, indipendentemente dal risultato ottenuto.
CAMBIAMENTI
Analizzata l’anatomia di un eroe, si rende necessario descrivere il contesto storico della vicenda in questione.
Siamo all’inizio del 2024, e la notizia di un cambio di gestione della The Fox Running scuote profondamente il nostro piccolo reparto corse. Un cambiamento sicuramente atteso, accompagnato da miglioramenti significativi, ma che ha anche portato ad un notevole incremento della difficoltà e del livello di competizione, ne è la dimostrazione il primo appuntamento stagionale ad Ottobiano. La nostra piccola 206+ soccombe alla potenza degli avversari relegandoci all’ultimo posto di categoria, complice anche qualche problema di affidabilità e una conformazione del tracciato non proprio in linea con le caratteristiche della nostra vettura.
Da questa prima tappa emerse chiaramente che, per essere realmente competitivi, sarebbe stato necessario un investimento significativo per migliorare l’auto. Tuttavia, considerando il percorso che si stava delineando — ovvero l’acquisto di un nuovo veicolo da preparare non solo per competere nella The Fox Running, ma anche per partecipare a gare titolate — investire ulteriori risorse sulla 206+ sembrava una scelta poco sensata.
PARTIRE COL PIEDE SBAGLIATO
In virtù di tali considerazioni, la compagine si avvicinava al secondo evento stagionale, che si svolgeva al Circuito Internazionale di Busca, con il morale sotto la suola delle scarpe. A complicare ulteriormente la situazione c’era la nostra entry list, che somigliava più al cast di un film dell’orrore che a quello di un team di motorsport: Matteo Arrigosi, l’unico pilota vero, affiancato dal sottoscritto e dal nostro Federico Scannavino, il tutto coordinato ai box da Giulia Ferola, Claudio Boscolo e Alessandro Rizzuti. Quest’ultimo, laureato in storia con specializzazione nell’epoca coloniale, era il nostro esperto ufficiale per i calcoli del consumo di benzina, visto che l’indicatore del cruscotto si rifiutava di funzionare. Insomma, si dice che chi ben comincia è già a metà dell’opera, ma noi non eravamo partiti con il piede giusto.
Eppure, proprio queste difficoltà hanno reso l’impresa ancora più straordinaria.
LET’S START THE JOURNEY
La storia inizia venerdì 5 aprile 2024, a meno di 24 ore dalla gara. Matteo e Giulia erano già arrivati nei pressi di Busca, ma, come sempre, il resto della compagnia era in ritardo clamoroso. Di Scan e Claudio non c’era traccia nemmeno all’orizzonte, mentre il tempo continuava a scorrere inesorabile. Come se non bastasse, dovevamo ancora pranzare tutti, e così il cosplay della spedizione italiana in Russia era praticamente completo. Vi risparmio il racconto dell’arrivo dei due commilitoni, del pranzo e del viaggio d’andata, perché aggiungerebbe solo un ulteriore tocco di tragicomicità alla vicenda.
Permettetemi però una breve osservazione: in autostrada, i camion dovrebbero restare nella corsia più a destra, evitando sorpassi continui ogni due minuti. Mi fermo qui, poiché questo sito web non è il contesto ideale per esprimere tali considerazioni in maniera più esplicita.
L’IMPORTANZA DEL PREGARA
«Dieci minuti prima di entrare in campo sto lì con la testa china, cerco il massimo della concentrazione. Poi l’allenatore mi dice le ultime cose, già le so, me le ha dette cento volte, le ho pensate mille. Poi c’è il rito, ogni squadra ha il suo, un urlo forte e siamo pronti. Adesso ci siamo, adesso andiamo fuori, adesso andiamo a vincere.» [Giuseppe Bergomi, Italia – Ghana, Campionato mondiale di calcio 2006]
Che ci crediate o no, il momento esatto in cui si vince una partita è dieci minuti prima di entrare nel rettangolo verde, quando ti stai allacciando le scarpe, quando pensi e ripensi a ciò che devi fare, quando parli con il tuo compagno di squadra seduto accanto a te, quando monti i parastinchi, quando chiedi il nastro americano per fissarli e, in risposta, il “lord” di turno dello spogliatoio se ne esce con: “Ma vattelo a comprare e non rompere i coglioni!“. In questi attimi si costruisce la vittoria dei novanta minuti successivi.
Nel motorsport è la stessa cosa: la gara vera inizia il giorno prima. Nel nostro caso, il percorso verso il miracolo si svolse nella seguente sequenza: nel paddock, nella stanza d’hotel e in pizzeria. Il paddock è solitamente il primo luogo dove arriviamo dopo il viaggio d’andata, e dove iniziamo a preparare l’occorrente per il giorno successivo, aspettando l’arrivo di tutti i membri del team. Qui avvenne il primo giro di saluti e sguardi, e quello di Matteo e Giulia fu eloquente: “Cosa cazzo ci facciamo qui con questi scappati di casa!?“. Come biasimarli, facevamo ridere i passeri.
Nella stanza dell’hotel, subito dopo il paddock, si tenne la prima delle tre riunioni, solitamente presieduta da Claudio, accompagnata da ingenti quantità di vino rosso, annunci di signore della notte che offrivano i loro servizi professionali in cambio di un corrispettivo economico e video tipicamente erotici o di incidenti mortali. Insomma, non proprio una riunione tecnica, ma piuttosto motivazionale.
Successivamente, il tutto si spostò nella pizzeria di turno, dove a presiedere il briefing c’era Matteo Arrigosi (che per comodità d’ora in poi verrà nominato con gli appellativi “Sua Maestà” o “Supremo”). Qui, tra una fetta di pizza e l’altra, i toni della discussione divennero decisamente più seri: consigli da parte del Supremo sul nostro futuro da corsaioli e su come affrontare la gara del giorno successivo, il tutto accompagnato dalla frase: “Achi, tu domani in pista fai l’opposto di quello che faresti”. Fiducia ai massimi storici, dovuta al peso di essere Davide Achille.
Tuttavia, fu proprio lì che l’ambizione ci permise di superare il poco talento messo a disposizione per quel weekend. Ritengo che si fosse formata una sorta di alchimia tra i membri di quella spedizione: la consapevolezza di essere in un momento particolare in cui la Peugeot 206+ non era affatto la vettura più prestazionale nella nostra categoria e la squadra di piloti era la peggiore vista finora nel nostro reparto corse, fece sì che si formasse quella consapevolezza assurda che si tradusse in una sola possibile affermazione: “Domani saliamo sul podio, fidati”.
IL GIORNO DEGLI EROI
Il mattino seguente si dovette prendere una decisione importante: chi sarebbe andato per primo in bagno ad espletare i propri bisogni fisiologici? Ridurre la zavorra è fondamentale per andare veloci in pista, così come scegliere la playlist per il tragitto verso il circuito. Ogni cosa deve seguire una logica quasi scaramantica, perché, in fondo, siamo un po’ malati di mente, con fissazioni che rasentano la psichiatria. Così come a rasentare i limiti della psichiatria fu anche la mia chiamata alle 7:30 del mattino alla mia compagna, che stava ancora in fase REM. Nonostante ciò, fu pronta a rincuorarmi e a consigliarmi saggiamente di lasciarla dormire, mandandomi nel contempo a quel paese. Giusto così.
Intanto l’ora dell’inizio delle prove libere si avvicinava inesorabilmente e noi ancora dovevamo fare la track walk, come se non bastasse mancava pure Sua Maestà all’appello e quindi a dispensare consigli di dubbia provenienza sulle traiettorie in pista c’era Claudio, con un monte ore passate tra i cordoli pari a 10 minuti e 54 secondi. Tutto regolare fino a quel momento.
LE PROVE LIBERE
Iniziarono le prove libere e la scaletta era la seguente: il Supremo al volante con Scan da passeggero, per poi essere sostituito da me. Alla fine del tempo a disposizione per le prove libere, sarei stato io a partire per la gara. Follia.
Il mio turno da copilota fu segnato dai consigli di Sua Maestà su come affrontare le curve conditi da un bel po’ di “Lascia stare quel cazzo di microfono, concentrati su sta pista!”. Non so che problemi abbia il nostro microfono con la mia persona, giuro di non avergli mai fatto nulla di male, ma proprio non ne vuole sapere di restare attaccato alla mia tuta e ogni volta è una lotta contro il mondo intero.
Ad ogni modo, stava per iniziare la gara e il Supremo rientrò ai box per permettermi di prendere le redini della piccola 206+. Giulia arrivò ad aiutarmi con le cinture, dandomi il canonico buffetto sul casco. Era l’ora di entrare in pista, percorrere gli ultimi cinque minuti di prove libere e iniziare la gara.
A questo punto, sarebbe opportuno aprire una parentesi sul perché le persone non riescano a capire che, in una gara di otto ore, non ha senso creare un traffico peggio della tangenziale di Milano cercando di tagliare il traguardo proprio con lo sventolio della bandiera verde: si tratta di una gara endurance.
Le vetture quindi si allinearono, rallentando, e dalle cuffie il Supremo esordì con un: “Fregatene, Achi, spingi e passali tutti!”. Peccato che i primi due si posizionarono uno affianco all’altro, e non riuscivo a passarli. Ma appena vidi un piccolo spazio aperto prima dell’ultima curva, mi infilai subito e iniziai a spingere sull’acceleratore, tagliando il traguardo esattamente nel momento in cui la bandiera verde veniva sventolata. Ero primo.
BANDIERA VERDE
Iniziò subito un tentativo di fuga. Non avevo l’auto più veloce, anzi, direi che era una delle meno performanti della nostra categoria, ma piano piano mi accorsi che mi avevano passato pochissime vetture e la maggior parte erano appartenenti alla categoria superiore, inoltre l’auto mi sembrava volasse con un ritmo incredibile, rispetto alla soccombente performance di Ottobiano. Quindi, mentre guidavo e spingevo, lanciandomi in sorpassi esaltanti, cercavo di calcolare la mia posizione, ma non era facile e, onestamente, non avevo idea di dove mi trovassi in classifica in quel preciso momento.
Al momento del cambio pilota, scesi dal veicolo e salì Scan. Sua Maestà si avvicinò subito insieme a Claudio e, con una certa discrezione, chiese se fosse il caso di dirmi in che posizione fossimo in classifica. Così, il nostro team principal Claudio mi informò: “Siamo terzi“. Assurdo, primo colpo di scena.
INIZIANO I PROBLEMI
Tuttavia, non passò molto prima che arrivasse il secondo: nonostante Scan stesse andando alla grande, con sorpassi mozzafiato e un ritmo di gara eccellente che sembrava far dimenticare i problemi avuti nelle altre gare, Giulia corse verso il nostro gazebo nel paddock, urlando: “Achi, Scan sta rientrando anzitempo! Non ho capito bene, ma sembra che non stia bene. Rimettiti subito il casco e corri alla pompa di benzina, facciamo rifornimento e poi tocca subito a te!“. Senza indugi, corsi al cambio pilota e, appena arrivò la vettura, Scan si precipitò fuori, balbettando: “Achi, scusami“. Non persi tempo e appena mi gettai nell’abitacolo capii subito: Scan aveva rimesso. Non c’era però tempo per lamentarsi, quindi, appena terminò il rifornimento, abbassai completamente i finestrini e mi lanciai di nuovo nell’inferno della pista.
Va aperta una piccola parentesi: ciò che fece Scan non era certamente la scelta più consigliabile dai medici, ma il fatto che avesse resistito fino a quel punto, per non gravare su una gara che stava andando alla perfezione, arrivando a stare male dentro l’abitacolo, fu uno dei gesti più stupidi e allo stesso tempo eroici di quell’impresa. Avrei voluto vedere un’altra persona al suo posto e scoprire cosa avrebbe fatto. Onore a lui.
IL MOMENTO D’IMBATTIBILITÀ
Il mio secondo turno di guida fu ancora più entusiasmante del primo. Realizzavo sorpassi incredibili, affrontando curve dove sembrava impossibile superare gli avversari. C’è un momento nello sport in cui entri in una sorta di trance agonistica, dove tutto ciò che fai riesce alla perfezione, anche oltre le tue capacità tecniche. Mi piace chiamarlo “momento d’imbattibilità”, e in quei minuti, credetemi, ero davvero imbattibile.
Terminato il mio turno, passai il testimone al Supremo. La sua performance fu, come sempre, straordinaria: un autentico martello pneumatico. Sorpassava ovunque, destra, sinistra, in alto, in basso, dimostrando un talento ineguagliabile. Mi chiedo spesso perché piloti del suo calibro non siano nelle categorie mondiali, mentre altri, meno dotati, finiscono sotto i riflettori. Misteri dello sport! Tuttavia, nemmeno il Supremo è perfetto: incappò in una penalità per un taglio di curva, che liquidò con un ironico: “Ho messo fuori solo una ruota… mezza, a dir tanto!”. Nonostante ciò, eravamo secondi di categoria.
L’ANIMA DI UN’AUTO
Con Scan fuori gioco per problemi fisici, io e Sua Maestà dovevamo affrontare tutte le ore restanti. Così, tornai in pista per il mio terzo turno di guida. Inizialmente, tutto sembrava andare bene, ma presto mi accorsi che qualcosa non funzionava: l’auto aveva un comportamento strano, e i giri motore salivano troppo rapidamente. Era chiaro, anche a uno come me con conoscenze meccaniche pari a zero, che qualcosa non andava. Cercai di segnalare il problema a Giulia in tribuna con strani gesti, visto che il microfono era, come al solito, disperso.
Commisi però un grave errore: non rientrai subito ai box. Non volevo vanificare i sacrifici fatti per mantenere il secondo posto e decisi di restare in pista, assumendomi la responsabilità. Dopo due giri, però, accadde il disastro: l’auto si spense nella seconda metà del circuito e così, tra le numerose imprecazioni che iniziai a lanciare dentro al casco, parcheggiai a bordo pista mentre il commissario davanti a me iniziava a sventolare la bandiera gialla.
Sembrava finita. Eravamo così vicini a un’impresa eroica, a salire sul podio e portare a casa un trofeo tanto desiderato. Presi un attimo per raccogliere le idee: dieci secondi, occhi chiusi, mani sulla chiave. Nel profondo del mio animo, pregai: “Accenditi, ti prego”. Fu allora che accadde il miracolo: la Perla Nera si riaccese! Chi pensa che un’auto non abbia un’anima si sbaglia: la nostra “Peugeottina”, abituata a girare in città alla media di 30 km/h, rivelò il cuore e l’anima di una vera auto da corsa. Riuscì così a riportarla ai box, anche se a passo d’uomo.
Appena fermo, il Supremo aprì il cofano. Sapevamo che il problema era la maledetta sonda giri, la stessa che ci tradì l’anno prima a Magione. Fu allora che l’altro eroe di questa impresa si fece avanti: nonostante il motore fosse bollente, Sua Maestà decise di sostituire la sonda, pur sapendo che avrebbe riportato un’ustione quasi certa. Con un coraggio da leone, infilò il braccio tra le componenti roventi, smontò la sonda danneggiata e installò quella nuova, guadagnandosi una bruciatura e una sequenza di imprecazioni all’Altissimo ben assestate. La cosa in quel momento importava relativamente, eravamo ancora vivi e in pista, ma eravamo quinti di categoria, ben distanti dal podio.
Rientrai quindi in pista con una cattiveria agonistica che poche volte mostrai nella mia vita. Non vado fiero di quello che sto per dire, ma non mi importava di niente, la mia vita, in quel momento, era secondaria all’ambizione di alzare un trofeo. Le provai tutte, spinsi come un forsennato, prendevo le curve come se avessi sette vite, assumendomi grossi rischi. Tuttavia, dovetti cedere il volante a Sua Maestà per l’ultimo turno di guida, mentre ci trovavamo ancora in quinta posizione, lontani da quello che ormai era diventato il nostro unico obiettivo: il terzo posto di classe.
L’ULTIMO STINT
Quello che sto per raccontarvi rappresenta probabilmente il capitolo più ansiogeno di questa storia: 90 minuti di pura tensione. Il Supremo tornò in pista per l’ultimo stint, con un solo obiettivo in mente: dimostrare tutto ciò di cui era capace e conquistare il tanto desiderato podio. L’impresa si preannunciava tutt’altro che semplice: la Toyota Yaris dei The Mean Man Machine e la Lancia Y degli Italian Sniper erano rapide e distanti. Serviva un miracolo.
Sapevo, in cuor mio, che sarebbe stato difficile, forse impossibile. Ma c’era una voce dentro di me che continuava a ripetere: “Qualcosa accadrà. Non può finire così. Non dopo tutto quello che abbiamo dato io e la squadra”. Ed ecco, come a rispondere alle nostre preghiere, l’ennesimo colpo di scena: un rumore forte squarciò l’aria del Circuito Internazionale di Busca. Mi voltai di scatto e vidi la Yaris avvolta in una nube di fumo nero, avanzando lentamente verso la corsia dei box. Incredibile, eravamo quarti e mancava poco più di un’ora alla fine!
Quella consapevolezza, la possibilità concreta di un podio, risvegliò il nostro spirito ormai abbattuto. Restava, però, un ultimo ostacolo: la Lancia Y degli Italian Sniper. Non erano certo piloti inclini a errori, ma il destino sembrava giocare ancora dalla nostra parte: la loro vettura si diresse verso la corsia dei box per il rifornimento, non avevano più benzina. Avevamo un giro di svantaggio e comunicammo dunque al Supremo di spingere al massimo: bisognava accumulare più vantaggio possibile. Sapevamo che tenerli dietro sarebbe stato difficile, considerando che la nostra Perla montava un 1.6 16V da 110 cavalli, completamente stock e in sofferenza. Ma poco importava: eravamo terzi di categoria, esattamente dove volevamo essere.
CALCOLI E TRIBOLAZIONI
A quel punto, il nostro nemico più grande non erano più le altre vetture, ma la benzina. La nostra macchina, oltre ai suoi limiti, non aveva modo di indicarci chiaramente quanta ne fosse rimasta. Fu allora che Alessandro, laureato in storia contemporanea, si propose di calcolarla. Il budget per un matematico lo avevamo evidentemente esaurito da tempo. “Tranquilli, ragazzi, ce n’è abbastanza”, dichiarò Alessandro con un’aria tanto sicura quanto spiazzante. Non sapevo se nel suo corso di laurea avesse mai affrontato esami di matematica, ma l’alternativa ero io: un laureato in giurisprudenza con diploma scientifico ottenuto per grazia divina. La squadra decise quindi di fidarsi dello storico con specializzazione in epoca coloniale.
SO QUELLO CHE FACCIO
«Just leave me alone, I know what to do!» [Kimi Räikkönen, Gran Premio di Abu Dhabi 2012]
Io, però, ero tutt’altro che tranquillo. La Lancia Y degli Italian Sniper viaggiava che era un piacere, e, nonostante il Supremo stesse spremendo tutto il potenziale della nostra macchina, perdeva circa un secondo al giro. Iniziai a tormentare il team con le mie ansie, camminando avanti e indietro per chilometri, stressando Giulia e Alessandro. Lui, a un certo punto, mi consigliò ironicamente di studiare più matematica e parlare meno, aggiungendo che, secondo i suoi calcoli, gli Italian Sniper ci avrebbero superato il mattino seguente. Ma fu il Supremo a mettere a tacere tutti, me compreso. Interruppe le comunicazioni con il box, inviando un messaggio chiaro al team principal Claudio: “D’ora in poi, solo comunicazioni importanti. Lasciatemi solo”. Era entrato in modalità martello pneumatico.
L’ultima mezz’ora si trasformò in una vera e propria passerella trionfale. L’adrenalina aveva lasciato spazio a un misto di sollievo e incredulità. “Claudio, vieni in tribuna a festeggiare! Mancano solo pochi minuti!”, gli urlai, incapace di trattenere l’entusiasmo. Ma Claudio, assorto nei suoi pensieri, mi rispose: “Un attimo, Achi, lasciami qui un secondo da solo”. Voleva assaporare quel momento in solitaria, seduto sotto il gazebo che era stato il suo quartier generale per tutto il giorno. Non si era mosso da lì nemmeno per andare in bagno, guidando noi e il Supremo con calma e determinazione, mentre Giulia, instancabile, faceva da vedetta dalla tribuna, sotto un sole implacabile.
LA GRANDE BELLEZZA
Il momento tanto atteso era arrivato. L’ultimo giro stava per iniziare. Claudio, finalmente uscito dal suo rifugio, salì in tribuna per comunicare a Sua Maestà che era giunta l’ora di chiudere in bellezza: il podio era a un passo. Guardai l’apertura nel guard rail vicino a Elia, il capo supremo della The Fox Running, che stava per prendere posizione per sventolare la bandiera a scacchi. L’istinto prese il sopravvento. Mi voltai verso Scan e Alessandro e, senza dire una parola, li invitai a seguirmi. Il Supremo stava percorrendo le ultime curve: dovevamo essere lì, sul traguardo, con lui.
Quelli che corsi furono i cento metri più intensi e significativi della mia vita. Ogni passo che facevo mi liberava da anni di frustrazioni, da tutte le delusioni vissute come atleta. Ripensai ai gravi infortuni alle ginocchia, alle operazioni dolorose, alle notti insonni piene di lacrime e dolore, ai mesi di riabilitazione, al sentirmi inferiore, inadeguato, un potenziale mai veramente espresso. Tutto questo, in quel momento, svanì. Correvo senza freni, libero, con un solo obiettivo: celebrare il miracolo che stavamo vivendo.
Ore 18:00, Sua Maestà tagliò il traguardo. Con tutta la forza che avevo dentro, urlai a squarciagola, abbracciando Scan e Alessandro, mentre anche loro esplodevano di gioia. Era finita. Ce l’avevamo fatta. Terzi di classe, quarti nella classifica generale: il miracolo si era compiuto. Claudio scoppiò in lacrime, finalmente libero dalla tensione. Giulia ballava e urlava nella radio, comunicando al Supremo, suo compagno di vita, quello che già sapeva nel profondo: ce l’aveva fatta, aveva portato un gruppo di scappati di casa sul podio di una gara vera!
L’articolo potrebbe concludersi qui. Il resto fu solo pura celebrazione di quanto accaduto: abbracci, foto di rito, il momento magico del podio con quella coppa tanto desiderata sollevata al cielo da Claudio, e lo spumante che esplodeva in aria per finire inevitabilmente addosso a Sua Maestà. Cinque secondi prima ci aveva chiesto gentilmente di risparmiarlo, ma, caro Teo, scusaci: siamo fatti così, un po’ fastidiosi, ma alla fine adorabili.
CONCLUSIONE
Questa è la nostra storia. Una storia che, a distanza di tempo, risulta ancora difficile da realizzare. Che siate appassionati di motori o meno, sappiate che conquistare un podio con un’auto completamente stock, a parte qualche intervento alle sospensioni e ai freni, non è certo qualcosa che accade ogni giorno. Per una volta, ci siamo sentiti eroi. Parte di un piccolo grande miracolo sportivo, una consapevolezza che nessuno potrà mai portarci via.
Ma tornando alla domanda iniziale: cos’è, quindi, un eroe?
I resilienti Scan e Giulia: Scan, che non ha mollato un centimetro anche quando stava male, continuando a spingere al massimo; Giulia, che non ci ha lasciati soli un secondo, sempre lì sotto il sole, con la radiolina in mano, pronta a fare da vedetta per otto interminabili ore.
I determinati, Davide e Claudio: Davide, che ha dato tutto senza mai risparmiarsi, nemmeno un millimetro; Claudio, che ha creduto in noi dall’inizio e non ha mai permesso che il morale crollasse, nemmeno nei momenti più bui.
I sognatori appassionati, Alessandro e Matteo: Alessandro, con la sua umiltà, che ha sostenuto il team con quei calcoli improbabili ma incredibilmente corretti, nonostante la laurea in storia e non in matematica; Matteo, che ha guidato un gruppo d’inesperti a un risultato straordinario, mettendo anima e corpo, letteralmente, fino a ustionarsi un braccio per riparare il motore.
Questa è la nostra squadra, questo è il nostro miracolo. Questi sono, gli Eroi di Busca.