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A cura di Claudio Boscolo.

Questo 15 settembre ha sancito una data importante per i tanti appassionati di F1 attorno al globo: l’arrivo del docufilm di Netflix “Schumacher”.

Da quando hanno iniziato a girare i primi trailers, l’hype è salito alle stelle: finalmente un documentario su Michael.

Sarò sincero, vedendo l’entusiasmo generale, mi aspettavo un po’ di più.

Il prodotto, a livello tecnico, è molto valido anche se siamo ad anni luce di distanza dal capolavoro indiscusso del genere: Senna.

Se da una parte la figura ombrosa, mistica e ispiratrice di Senna fa tutto il lavoro nell’omonimo documentario qua, invece, siamo di fronte ad una finalità ben diversa.

Più che la scoperta della persona e della personalità di Michael, siamo di fronte ad un testamento d’amore da parte di Corinna e famiglia nei suoi confronti.

La forte emotività è la parte vincente di questo docu-film mentre il lato riguardante la F1 fa decisamente acqua da tutte le parti.

Il lato sportivo è quasi un contorno, una sorta di “casus belli” per giustificare un film che sottende interamente ai 20 minuti finali.

L’impressione netta, che ho avuto, è che sia un prodotto destinato per lo più ai neofiti della categoria e, contestualmente, a coloro che vivono perennemente nella nostalgia dei tempi andati.

Quello che vediamo, per quasi tutto il film, è Schumacher raccontato e visto interamente nell’ottica di Corinna e di conseguenza riusciamo a percepire il lato più umano del pilota che tutti noi abbiamo amato.

La bellezza e la dolcezza di questi racconti, aneddoti ed avventure sono ben incastonati all’interno delle vicessitudini sportive.

Ecco appunto, arriviamo alla vera nota dolens, di “Schumacher”: come viene trattata la sua carriera?

Male, a tratti malissimo.

Tanti eventi chiave saltati, rivalità ignorate (Alonso, giusto per citare una grande assenza), sproporzione negli interventi da parte di personaggi tutto sommato marginali che occupano uno spazio eccessivo, in fin dei conti.

Più di tutti mi ha lasciato perplesso il voler dipingere Damon Hill come grande, acerrimo rivale in carriera e quasi etichettare Mika Hakkinen come poco più di un semplice avversario.

Per intenderci ha avuto più risalto Coulthard di Mika.

Gli interventi di Irvine, per quanto possano lasciar intravedere la sua personalità vulcanica ed eccentrica in contrapposizione all’etica di lavoro dell’asso tedesco, restano per lo più marginali e totalmente trascurabili ed ininfluenti.

A proposito di compagni di squadra: ma Barrichello? Non pervenuto e anche qua non trovo il senso di lasciar fuori dal racconto il principale “partner in crime” dei successi in pista nella parentesi di Maranello.

Per non parlare poi della quantità di eventi chiave non citati ma che sono stati fondamentali nella carriera di Schumacher: dalla disputa contrattuale Jordan-Benetton, passando per la macchina che non parte nell’ultima gara del ’98 e ancora Imola 2003 a grande testamento del carattere e della forza di volontà e ancora l’inspiegabile assenza di Suzuka 2006 e Interlagos dello stesso anno con la rimonta che più di tutte fa lacrimare i tifosi di tutto il globo.

E questi sono alcuni episodi che su due piedi mi vengono in mente.

Per quanto riguarda la narrazione è molto scorrevole e piacevole fino al periodo “buio” del ’96-’99 dove il racconto si appesantisce notevolmente. Il capitolo dei successi in rosso, infine, viene trattato troppo velocemente e, a mio parere, non riceve il credito che merita.

Poi ci sono gli ultimi 20 minuti.

Il vero punto focale del docu-film, il punto dove tutti vogliono arrivare.

Struggenti, dolorosi, drammatici.

In definitiva: un calcio alla bocca dello stomaco.

Il misto di frasi dette e non dette, l’utilizzo dei tempi verbali, gli occhi gonfi e le lacrime lasciate andare o trattenute a stento restano forse più potenti di qualunque altra frase.

In definitiva è un docu film potente emotivamente, che si muove per lo più sulla curiosità quasi morbosa dello spettatore per le condizioni di Michael più che muoversi verso l’esaltazione di una carriera esemplare che lo ha reso il simbolo della F1 moderna.

Di Claudio Boscolo

Appassionato di endurance da quando ho memoria, innamorato perso della Panoz Esperante e nostalgico della Jordan e della Jaguar in Formula 1. Cantastorie di piloti e di gare, all'occorrenza team principal dell'ItalianWheels Racing Team.

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